domenica 21 novembre 2010

RECENSIONE di Renzo Montagnoli

Luci e ombre sul Risorgimento

Negli archivi privati di Teodoro Bayard De Volo, ministro del duca di Modena Francesco V, si trova anche uno scritto, quasi anonimo, in quanto firmato solo J.A., con delle straordinarie rivelazioni.
Il documento è attualmente conservato nell’Archivio di Stato di Modena e ha destato l’interesse di Elena Bianchini Braglia, che, in questo libro, lo riporta integralmente. E’ curioso notare l’italiano di altri tempi, non gravido di errori, ma di espressioni ormai desuete.
Ma cosa ha di così tanto interessante questo scritto?
In pratica, J.A., che risponde poi al nome di Filippo Curletti, agente segreto del regno sabaudo al servizio del Conte di Cavour, getta nuove luci sul nostro Risorgimento, anche se sarebbe più esatto dire che getta nuove ombre.
Non è che siano rivelazioni assolutamente imprevedibili, perché gli storici si sono finalmente liberati da quella visione del periodo risorgimentale riportata sui testi scolastici, ripetuta da insegnanti sia in epoca prefascista, sia durante il ventennio che negli anni successivi.
Che il nostro Risorgimento non corrisponda alle lezioni ricevute è ormai assodato e questo sulla base di indizi, numerosi, circostanziati e, per la loro logica, quasi del tutto probatori.
Lo scritto di Curletti costituirebbe invece la prova inoppugnabile di come sono andate finalmente le cose, perché l’uomo non è solo spettatore degli eventi, ma vi partecipa o addirittura li promuove.
Resta da stabilire la sua attendibilità.
In ordine alla sua autenticità sembra che non ci siano dubbi, tanto che è conservato nell’Archivio di Stato; se poi sia stato redatto proprio da un agente segreto, certe situazioni riportate, che trovano riscontri e che non erano comunque all’epoca di dominio pubblico, sembrano avvalorare l’ipotesi.
C’è un ultimo quesito da considerare, e cioè se Curletti ha scritto la verità, magari inserendo abilmente menzogne fra fatti realmente accaduti.
Questo è impossibile da verificare, per quanto quegli indizi di cui ho sopra accennato siano compatibili con il documento in questione.
Curletti sembra voler lasciare ai posteri la spiegazione di un fatto di grande portata come il Risorgimento, proprio perché possano comprendere come mai sia stato realizzato uno stato, con le sue istituzioni, ma sia mancata la nazione italiana, cioè non vi sia quel senso di forte identità che accomuna i suoi abitanti.
Così, leggendo queste pagine, potremo capire come delle finalità puramente dinastiche e di potere furono spacciate per il più nobile scopo di un’indipendenza, potremo vedere con occhi nuovi Vittorio Emanuele II, definito il re galantuomo, perché appunto non lo era, troveremo un Garibaldi al di fuori della tradizione mitizzante, un brigante con vaghe idee di dare agli italiani un paese libero.
Su tutto domina la corruzione, che emana dal personaggio di Cavour, un male ormai diventato endemico e che condanna l’Italia a un’arretratezza morale che aggrava la mancanza di una forte identità nazionale.
Da leggere, inoltre, la presentazione di Walther Boni e l’esauriente e approfondita introduzione della curatrice Elena Bianchini Braglia, che, riferendosi alla imminente ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, termina con un invito che non è disaggregante, ma di autentica speranza affinché, come disse Massimo d’Azeglio, “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Il suo pensiero è’ frutto di saggezza e di sincero amore per il paese, ma essere consapevoli del nostro passato è l’unico modo per essere tutti effettivamente italiani.
Scrive infatti Elena Bianchini Braglia: In realtà l’unico modo per celebrare l’Italia sarebbe quello di restituirle tutta la sua storia, tutti i suoi eroi, valorizzare tutte le sue antiche tradizioni, riconoscere le diversità dei popoli che la compongono. Solo così si potrà dare un senso a questa ricorrenza, solo così, forse, superate le violenze, le incongruenze e le forzature, l’unità potrà “ essere forte e durevole”.
Questo libro non può solo essere letto, ma deve essere letto, perché la verità, sepolta da anni di menzogne, possa finalmente trionfare e consentire a noi italiani un processo cognitivo delle nostre origini, delle nostre tradizioni, peculiari delle varie zone in cui l’Italia era divisa 150 anni fa, presupposto indispensabile per costruire un futuro di effettiva unione nel quadro di un’identità nazionale che fino a ora non è mai esistita.

Renzo Montagnoli

http://armoniadelleparole.splinder.com/post/23632084/la-verita-sugli-uomini-e-sulle-cose-del-regno-ditalia-di-filippo-curletti

mercoledì 1 settembre 2010

Ristampa: LA VERITA' SUGLI UOMINI E SULLE COSE DEL REGNO D'ITALIA

Queste straordinarie rivelazioni, che immancabilmente gettano una luce nuova sugli avvenimenti e sugli uomini che hanno costruito la storia del Risorgimento, ci mostrano finalmente il processo che portò all’unificazione italiana per quello che veramente fu, dopo che per decenni una certa storiografia di parte ce lo aveva venduto come l’intoccabile e indiscutibile azione eroica di valenti personaggi che si fecero portavoce di un fantomatico popolo oppresso.
Nella sua qualità di agente, Curletti venne messo al corrente dei numerosi segreti e complotti alla base degli avvenimenti sfociati nell’unificazione della penisola italiana e nella vittoria definitiva dei liberali contro il legittimismo e l’assolutismo. Tali segreti lasciano emergere finalmente come il Risorgimento, ben lungi dal poter essere definito un movimento popolare, voluto dalla gente e realizzato infine da eroi disposti a sacrificarsi in nome della libertà, fu invece in realtà un’azione lungamente programmata e pianificata da alcune élites borghesi che machiavellicamente non esitarono ad adottare stratagemmi tutt’altro che onesti o eticamente ortodossi per giungere allo scopo.


Filippo Curletti
LA VERITA' SUGLI UOMINI E SULLE COSE DEL REGNO D'ITALIA
Rivelazioni di J.A.
Antico Agente secreto del Conte Cavour

a cura di Elena Bianchini Braglia
Presentazione di Walther Boni
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-16-4]
Pagg. 88 - € 7,00

http://www.edizionisolfanelli.it/veritauomini.htm

domenica 28 settembre 2008

La barbarie entra nelle ex capitali

A Parma, il dittatore dell’Emilia Carlo Farini depreda Palazzo d’Este e fa linciare un ufficiale.

[Da "La Padania", 28 settembre 2001]

Sulla scia della guerra contro l’Austria i Savoia annettono, uno dopo l’altro - grazie a congiure preparate da tempo -, tutti gli staterelli dell’Italia centrale. La versione sabauda sostiene che questi territori, liberati dai loro tirannici signori, godono finalmente di meritata pace e prosperità.

Una corrispondenza da Parma comparsa sulla Civiltà Cattolica nell’ottobre del 1859 permette di capire quanto poco idilliaca fosse in realtà la situazione creatasi dopo l’invasione piemontese. La rivista dei gesuiti parla di un evento barbaro accaduto a Parma il 5 ottobre, riportato sulla Gazzetta di Parma: "Ieri sera il popolo si lasciò fatalmente dominare da un trasporto infrenabile di odio, di sospetto e di vendetta che lo trascinò suo malgrado a commettere un fatto che la penna rifugge dal narrare".

L’azione commessa "suo malgrado" dal popolo è l’uccisione di Luigi Anviti, colonnello della duchessa Luisa Maria di Borbone. Tornato in città dopo "alquanti mesi di misteriosa assenza", riconosciuto, Anviti in "pochi momenti" è ridotto a cadavere. La Civiltà Cattolica offre un resoconto meno reticente dell’accaduto ricorrendo al Cattolico di Genova del 7 ottobre. Avvalendosi della corrispondenza di un parmigiano, il giornale scrive che il colonnello Anviti è riconosciuto sul treno che da Bologna porta a Parma.

Appena sceso dal treno è arrestato e condotto alla caserma dei carabinieri; da qui è prelevato da un gruppo di persone inferocite; fra botte e coltellate è trasportato al Caffè degli Svizzeri che è solito frequentare: "Là giunti, l’infelice, che non era per anco del tutto spento, fu collocato sopra d’un tavolo, e a colpi di spada gli fu tagliata la testa". Non basta: "Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè, le si è posto un sigaro in bocca, ed in questo modo fu portata sulla colonna che sorge in uno dei quadrati della nostra piazza rande. Una torcia da vento le fu collocata dinanzi, onde fosse meglio veduta, e il popolaccio divertendosi, faceva suonare da suonatori ambulanti, accompagnando egli stesso con la voce, inni patriottici!".

A questo punto la Civiltà Cattolica riporta una breve rassegna stampa dell’accaduto: la Gazzetta di Parma indirizza l’indignazione della pubblica opinione più sulla vittima che sui carnefici mentre la Gazzetta di Modena sostiene che a fare a pezzi Anviti "furono austriaci mandati colà apposta". La stampa estera liberale è meno comprensiva di quella nazionale: il Journal des Débats del 12 ottobre si domanda: "Com’è mai accaduto che il cadavere e il capo del colonnello Anviti siano stati strascinati per quattro ore per le vie della città prima che l’Autorità si sia commossa?" e il corrispondente del Times scrive da Bologna il 15 ottobre: "Sono partito da Parma questa mattina, non volendo più essere testimone dello spettacolo lagrimevole che presenta quella città".

Chi paga per il misfatto commesso contro Anviti? La geniale idea del Municipio è che paghi la colonna: la Gazzetta di Parma del 22 ottobre pubblica il decreto che decide l’abbattimento del famigerato oggetto, ritenendo così di aver "tolta e cancellata ogni traccia che ricordi al cittadino come questa diletta terra fu contaminata dal delitto".

Grazie al Memoriale del capo della polizia politica Filippo Curletti, prezioso collaboratore di Cavour, siamo in grado di aggiungere qualche tassello mancante al caso Anviti. Curletti racconta che Luigi Carlo Farini - nominato da Vittorio Emanuele dittatore dell’Emilia - appena saputo dell’arresto di Anviti ordina di precipitarsi a Parma. "Che bisogna fare? Volete che ve lo conduca?", chiede l’ispettore. "Eh! No - è la risposta - non sapremmo che farne! Egli è un uomo pericoloso". Farini soggiunge: "Noi non possiamo toccarlo, senza che sorgano clamori. Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso. Io partii - scrive Curletti - e si sa quel che avvenne".

L’operato di Farini in Emilia è così descritto dall’influente liberale marchese Gioacchino Napoleone Pepoli su l’Eco dell’Emilia: "Farini fu sollecito a scarcerare dal forte Castelfranco circa un migliaio di precauzionali, che invecchiati nel vizio ed organizzati fra loro al delitto davano poca anzi niuna speranza di essersi emendati". Con le informazioni di cui disponiamo grazie a Curletti possiamo capire quali ragioni inducano Farini a scarcerare delinquenti comuni.

Un ultimo particolare sull’operato del futuro presidente del Consiglio a Modena: impossessatosi di tutte le chiavi del castello ritiene superfluo fare l’inventario dei beni e palazzo d’Este è sottoposto ad un vero e proprio saccheggio. L’argenteria, fatta fondere, è trasformata in lingotti e persino gli abiti della Duchessa sono adattati alle misure della signora Farini e figlia. Il compito di Curletti? Raccontare alla stampa che il Duca, fuggendo, ha "menato seco tutta l’argenteria e tutti gli oggetti di qualche valore, lasciando vuote financo le cantine".

Angela Pellicciari

http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=359

sabato 5 luglio 2008

I plebisciti della vergogna

Filippo Curletti fu un “patriota”, di quelli che fece il risorgimento e fece l’Italia. Stretto collaboratore di Cavour, ebbe l’incarico di capo della polizia politica a Modena e sovrintese alle votazioni per il plebiscito di annessione nella città. Così ricorda le operazioni di voto nel suo Memoriale: «In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, [delle schede] degli assenti - chiamavamo ciò completare la votazione – si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti».
La citazione è tratta da I panni sporchi dei Mille (Liberal Edizioni, Roma 2003), di Angela Pellicciari, autrice anche dell’articolo che riportiamo di seguito, nel quale spiega come si svolsero realmente i plebisciti che servirono a dare apparenza di legittimità, di fronte alle potenze internazionali, alla conquista armata della penisola voluta dai Savoia.
A Napoli, per sommo scorno, al plebiscito del 21 ottobre 1860 è intitolata proprio la grande piazza prospiciente Palazzo Reale, la cui esatta denominazione è Largo di Palazzo. A 148 anni di distanza e a Regno d’Italia scomparso, il solo commento che si può fare è che “chi di plebiscito ferisce, di plebiscito perisce”.



I plebisciti della vergogna

Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai Savoia e dai liberali, in nome della costituzione e della libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio ripetuta. I popoli - si diceva (e si con­tinua a ripetere) - “gemevano” sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque, andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non da schiavi.

Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con cura. Peccato che sia radicalmente falsa.

Prima di invadere (senza dichiara­zione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la propria di­retta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli Stati italia­ni, il governo sardo-piemontese ave­va fatto in modo che avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava di garantire il buon nome del re sabaudo di fron­te all’opinione pubblica italiana e straniera.

Ecco cosa scrive Giuseppe La Fari­na, braccio destro di Cavour, in una lettera a Filippo Bartolomeo: «È necessario che l’opera sia comin­ciata dai popoli: il Piemonte verrà, chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla con­quista, e si tirerebbe addosso una coalizione europea». Il re Vittorio Emanuele - continuava la lettera - dice: «io non posso stendere la mia dittatu­ra su popoli che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pre­testo alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno».

Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali so­no riusciti ad organizzare le “insor­genze” popolari solo a Firenze, a Perugia e nei ducati.

A Napoli come a Roma non c’è stato nulla da fare. E dove pure sono riusciti ad orga­nizzarle, lo hanno fatto con la cor­ruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati un’ottantina di carabinieri fatti veni­re per l’occasione da Torino e spac­ciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non difettava alla classe dirigente piemontese, desi­derosa di conquistare un regno pre­stigioso come l’Italia.

A cose fatte, a conquista avvenuta, si trattava di mostrare urbi et orbi quanto felici fossero gli italiani del nuovo stato di cose. A questo sco­po i padri della patria hanno fatto ri­corso ai plebisciti. Hanno cioè chia­mato tutta la popolazione a votare (cosa inaudita in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% degli abitanti) perché tutti, ma pro­prio tutti, avessero modo di manife­stare in modo democratico, e cioè col voto, il proprio entusiasmo uni­tario.

Indetti l’11 e 12 marzo 1860 in Emi­lia, Toscana, Modena e Reggio, Par­ma e Piacenza, il 21 ottobre in Italia meridionale, il 4 e 5 novembre nelle Marche e nell’Umbria, i plebisciti hanno dato un risultato strabilian­te. Praticamente tutti erano per Vittorio Emanuele Re d’Italia. Non c’era nessuno, quasi nessuno, che rimpiangesse i vecchi governanti. Meno che mai il Papa.

Il fatto è strano, bisogna dirlo. Co­me strana fu la straordinaria afflu­enza alle urne, tenuto soprattutto conto che la maggioranza della po­polazione era analfabeta e che la prassi del voto era una novità quasi assoluta.

Tanta stranezza ha una facile spiegazione: il dato plebiscita­rio, tanto propagandato, è stato il risultato di una truffa gigantesca, confezionata ad arte.

Il capo della polizia politica Filippo Curletti, così ricorda nel suo Memo­randum: «Ci eravamo fatti rimette­re i registri delle parrocchie per for­mare le liste degli elettori.

Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si pre­sentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmen­te in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti. Non è mala­gevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’in­differenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo».

Curletti ci tiene a chiarire che le co­se stanno proprio come le racconta e specifica: «per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cogni­zione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze».

Per quanto riguarda la Toscana abbiamo una divertente testimonianza raccontata dalla Ci­viltà Cattolica. Lì una pressante cam­pagna di stampa aveva dichiarato «nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stam­pare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno sepa­rato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’an­nessione. Chiedevano i campagnuo­li che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse por­tata cadeva in multa. Subito i con­tadini; per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sa­pere che cosa contenesse».

Il 9 ottobre, da Ancona, Vittorio Emanuele aveva indirizzato ai Po­poli dell’Italia meridionale il seguen­te proclama: «Le mie truppe si avan­zano fra voi per raffermare l’ordine: io non vengo ad imporvi la mia vo­lontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestar­la: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna».

Forte del fa­vorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre il Re aveva dichiarato: «Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decre­to della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscien­za d’italiano».

«Uscite, popolo mio, da Babilonia» (Ap 18,4). Bene ha fatto Pio IX a proclamare il non expedit. l cattoli­ci, con quel tipo di Stato, non dove­vano aver nulla a che fare.

Il Timone, novembre 2003)

http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=fr&pg=647

sabato 17 maggio 2008

Edgardo, il bambino rapito dal papa Pio IX

Approfondiamo il discorso sull’integralismo religioso raccontando due episodi.
Un evento è del 1858, quando la Chiesa Cattolica non era ancora entrata nell’epoca della tolleranza, un ingresso auspicabile anche per le frange estreme dell’Islamismo.
Nel brano si parla del rapimento di un bambino ebreo, rubato alla sua famiglia d’origine e poi cresciuto in una nuova famiglia cristiana. Diventò in seguito sacerdote, e fu amico del Papa, l’uomo che aveva ordinato il suo rapimento.
Vicenda parallela - sempre per grandi linee - a questa del 1858, è il caso del bambino cubano finito in Florida e poi restituito ai suoi genitori.
Anche la seconda vicenda - siamo nella Nuova Guinea del 1960 - tratta di rapimenti di bambini. Anche qui - contro ogni aspettativa - il figlio rapito ama e rispetta profondamente il nuovo padre adottivo, lo stesso che ha ucciso il suo padre naturale.
Ecco l’episodio che riguarda i cristiani.
"Pier Gaetano Feletti, come sacerdote e inquisitore di Bologna, era stato uno dei più importanti ingranaggi del Sant’uffizio e, quindi, dell’apparato repressivo parallelo della Santa sede. Appena venti mesi prima che Bologna, nel 1859 dopo la II Guerra d’Indipendenza, decidesse per l’unione con il Piemonte, Faletti era stato l’organizzatore di uno dei più noti attentati ai diritti dell’uomo perpetrati nell’Europa del secondo Ottocento.
Il 23 giugno 1858 - appena un anno prima del cambio di regime - egli aveva infatti organizzato il rapimento legale di un bambino ebreo di 6 anni, Edgardo Montana, strappato letteralmente dalle braccia della madre da un drappello di carabinieri pontifici che obbedivano a un suo ordine. Braccato come un criminale e sottratto agli affetti familiari, quel bambino non avrebbe mai più giocato nella sua casa. Trasferito tempestivamente a Roma nella Casa dei Catecumeni, ribattezzato con il
nome di Pio Edgardo in onore del pontefice regnante, avrebbe subito nel decennio successivo un pesante condizionamento mentale, tanto da abbracciare gli ordini religiosi, diventando uno dei più eruditi e faziosi predicatori di parte cattolica, uno dei più accesi fautori della conversione al cattolicesimo degli antichi correligionari israeliti.
Per quanto sia stato di recente riproposto dallo storico americano David I. Kertzer in uno studio avvincente sul piano narrativo e contenutistico, il caso Montana presenta tuttora rilevanti margini di ambiguità. Il piccolo Edgardo aveva attirato su di sé l’attenzione dell’inquisitore Feletti perché una domestica della famiglia Mortara, Anna Morisi, asseriva di averlo battezzato di nascosto. In tal caso, l’ordinamento canonico non consentiva di lasciare una creatura convertita nella famiglia d’origine. Ma la domestica Anna Morisi era analfabeta e le successive richieste giudiziarie dimostrarono che era digiuna riguardo alle modalità di somministrazione dei sacramenti. Per di più, ella fu presa in considerazione per dare basi legali al rapimento di Edgardo, benché la sua moralità la rendesse per molti versi inattendibile agli occhi della stessa Chiesa. Era infatti di pubblica notorietà che Anna Morisi intrattenesse intense relazioni sessuali con parecchi soldati austriaci di stanza a Bologna, fatto che ci consente di mettere a fuoco un altro aspetto della vicenda.
La fine della fiammata quarantottesca aveva accentuato i caratteri di sovranità limitata dello Stato Pontificio. Roma era presidiata dai francesi che vi mantenevano una forte guarnigione, rinforzata da una significativa presenza navale nel porto di Civitavecchia; una volta trasformata la città eterna in un protettorato bonapartista, il papa Pio IX, suo malgrado, finiva col figurarvi di fatto come semplice vescovo della seconda città dell’impero.
Bilanciavano questa presenza guarnigioni austriache ad Ancona, Bologna, Ferrara ed altri centri minori. Ora, che un bimbo di sei anni potesse essere rapito alla sua famiglia senza che l’imperial regio Comando delle truppe d’occupazione ne fosse preventivamente informato, appare inverosimile. Di questa incredulità si fece immediatamente portavoce il governo della Prussia - interessato a contendere all’Austria l’egemonia della Germania - protestando ufficialmente contro "il rapimento del giovane Mortara in una città occupata dalle truppe austriache che non hanno potuto impedire con la loro presenza una simile violazione della legge morale di tutti i popoli civili".
Non si dimentichi, infatti, che dal 17 maggio 1849, giorno dell’arrivo a Bologna dei primi reparti austriaci, anche se formalmente la città non era rimasta per un intero decennio in stato d’assedio, le autorità pontificie (civili, militari e di polizia) non potevano più adottare provvedimenti di un certo rilievo senza darne preventiva comunicazione al Comando asburgico. Per di più, la sottrazione violenta di un bambino alla patria potestà poteva innescare reazioni incontrollabili, rendendo difficile la tutela dell’ordine pubblico; questa considerazione rendeva inevitabile un preventivo nulla osta dell’autorità militare austriaca anche per quella che, forse, l’Inquisizione romana rubricava come mera operazione di polizia religiosa. Certo, riesce difficile capire in quali mani fosse finita la grande tradizione giurisdizionalista austriaca di Giuseppe Il e Leopoldo Il d’Asburgo; mentre non è 4ato sapere se l’imperatore Francesco Giuseppe fosse stato tempestivamente informato del grave oltraggio inferto alla comunità israelita, generalmente rispettata e protetta nelle altre città del suo impero. Dal Diario Massari siamo informati di un passo ufficiale del conte Colloredo, ambasciatore austriaco a Roma, che non ottenne alcun risultato.
Forse questo spiega anche la fretta estrema con cui, nel breve volgere di poche ore, Edgardo Montata scortato dai gendarmi venne spedito di gran carriera a Roma, per essere rinchiuso nella Casa dei Catecumeni. Ma anche nella capitale il transito dei passeggeri non era privo d’inconvenienti. Per entrare in città da una qualunque delle porte d’accesso, occorreva presentarsi ai posti di blocco francesi per far vistare i passaporti; lì l’ufficiale di picchetto, anche in assenza di segnalazioni precise, avrebbe dovuto rilevare la stranezza di un bimbo in viaggio da Bologna a Roma, privo della compagnia di parenti adulti, affidato alle cure di un brigadiere della gendarmeria pontificia.
Il rapimento non passò sotto silenzio nell’Europa del 1858. Si mobilitarono rapidamente stampa e diplomazia; lo stesso Napoleone III ne fu profondamente turbato, tanto da incoraggiare energiche proteste presso il cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, dando infine via libera all’estro teatrale del proprio segretario Mocquard. In quel dramma "la storia del piccolo Mortara, [era] dipinta con colori vivissimi", delineando "gli affetti di madre e le passioni religiose in tutta la loro potenza di natura e di fanatismo", alfine "d’influenzare le masse, distruggendo così ogni influenza delle polemiche clericali".
Per un momento sembrò addirittura che l’ambasciatore francese a Roma potesse farsi carico di un contro-rapimento che avrebbe restituito il piccolo Edgardo ai suoi genitori. Piano audace, ma non certo temerario, solo che si pensi che all’epoca Roma era sotto occupazione militare francese e che nel porto di Civitavecchia erano sempre alla fonda navi da guerra imperiali. L’improvvisa irruzione di un plotone francese nella Casa dei Catecumeni avrebbe liberato Edgardo senza neppure provocare una crisi internazionale, ma solo una protesta formale del cardinale Antonelli. Ma non se ne fece nulla e vien da pensare che sull’inazione francese, che contraddiceva le iniziative teatrali del segretario Mocquard, possa aver inciso il modesto peso sociale della famiglia Mortara.
Nella stessa Torino, dove, pure, il caso aveva suscitato scalpore, dal Diario Massari traspare implicitamente che se ne volesse fare una gestione politica ad uso interno. Luigi Carlo Farmi nella sua lettera aperta a lord John Russell, La quistione italiana, si era richiamato al "caso del Montana" per delegittimare lo Stato Pontificio, scrivendo che il Sant’uffizio "ha per santo il ratto dei bambini e non vi è forza di Potenze che basti a restituirli ai genitori". Lo stesso Cavour, quando venne informato dell’intenzione francese di rapire il bambino, definì una "idiozia" l’idea di "voler far terminare l’affare Montara". Mentre Michelangelo Castelli pregustava l’idea di vedere rappresentata a Torino La tireuse de cartes di Mocquard "per far andare in cimbalis il giornale l’Armonia", cioè per infastidire l’organo dei clericali piemontesi di don
Giacomo Margotti.
Pian piano, sulla disperazione della famiglia Mortara di Bologna che aveva avuto il solo torto di professare una religione sgradita al papa, scese un silenzio interrotto di tanto in tanto da un inutile intervento dei banchieri Rotschild o da articoli su una stampa sempre più disattenta.

E veniamo all’epilogo della faccenda: l’arresto del colpevole.
Quando si vide di fronte l’ispettore Filippo Curletti, capo della polizia politica delle Province regie dell’Emilia, padre Pier Gaetano Feletti si rese conto che per lui non c’erano più molti margini di manovra. Il 31 dicembre 1859, a Bologna padre Feletti veniva ammanettato dalla forza pubblica penetrata nel convento di San Domenico. Scortato nella prigione del Torrone sovrastante Palazzo d’Accursio, sede del governo cittadino, il sacerdote sapeva di non poter più contare sulla paterna protezione del cessato governo pontificio. Quell’arresto per padre Feletti non giungeva inaspettato; è addirittura probabile che si fosse meravigliato per aver goduto di una certa tranquillità nei mesi successivi alla fuga del cardinale Legato Giuseppe Milesi Pironi Ferretti quando, il 12 giugno 1859, quella partenza precipitosa aveva annunciato la fine di un’epoca.
Per molti aspetti, l’arresto di padre Feletti poteva rappresentare l’introduzione nelle cessate province pontificie di canoni di legalità europea, l’irruzione a Bologna di una modernità statale sotto forma giudiziaria, basata sul principio che tutti gli individui potevano essere sottoposti a regolare processo penale, prescindendo da qualunque privilegio di ceto. Proprio perché padre Feletti non era un sacerdote qualunque, il suo arresto era destinato a mettere rumore in città, destando contemporaneamente l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica europea.

Rinviato a giudizio il 7 marzo 1860, qualche giorno prima del plebiscito, per "separazione violenta del fanciullo Edgardo Mortara dalla propria famiglia israelitica per motivo di dedotto battesimo"", fu assolto dopo una breve camera di consiglio per aver obbedito a ordini superiori, dato che "l’ablazione fu fatto di Principe". Commentando la sentenza, il bolognese Enrico Bottrigari rilevò che "avuto riguardo alle leggi che vigevano antecedentemente, sarebbe stato migliore avviso di non inquirere contro questo Signor Inquisitore, che, al dire di molti, se non fu autore, fu almeno complice efficacissimo di quel misfatto".
Resta da aggiungere che una severa condanna detentiva di padre Feletti, comunque motivata, avrebbe potuto servire per proporre a Roma uno scambio del recluso domenicano con il bambino Montana. Ma, quasi certamente, la Santa sede avrebbe opposto un diniego, formalmente ineccepibile, ancorato a precise disposizioni canoniche. Anche se non era mai stato dimostrato che Edgardo fosse stato effettivamente battezzato da un adulto perfettamente consapevole della portata di quel sacramento. Senza contare che papa Pio IX, nel frattempo, si era anche affezionato a quel bambino a cui, con modalità improntate ad arbitrio pre-moderno, aveva distrutto la famiglia.
La sentenza di assoluzione fu emessa il 16 aprile 1860 e l’imputato Feletti beneficiò del divieto di retroattività delle disposizioni incriminatrici, uno dei cardini del pensiero giuridico moderno. Era stato quindi processato in base al Regolamento pontificio sui delitti e sulle pene del 1832 che non prevedeva sanzioni per il sequestro di persona e per il sovvertimento dell’ordine delle famiglie. (Tratto da Martucci Roberto "L’invenzione dell’Italia unita", Sansoni, pag. 130)

Ecco invece il rapimento di bambini in Nuova Guinea.
"Il capo e sua moglie erano molto orgogliosi di Oblankep. Spesso sedevamo insieme a parlare. Un giorno il capo annunciò, con mia grande sorpresa, che mi avrebbe raccontato la storia di come aveva trovato suo figlio.
I fatti si erano svolti, secondo quanto raccontava, alla fine degli anni Cinquanta o all’inizio dei Sessanta, l’anno dell’ultima grande scorreria nella regione di Yominbip. Gli abitanti della regione avevano programmato la spedizione da lungo tempo. Segretamente avevano costruito un ponte sospeso di canne sul fiume Sepik. Un gran numero di guerrieri attraversò il ponte di notte e circondò un villaggio di atbalmin.
A un segnale convenuto, i guerrieri scesero e massacrarono tutti i cinquanta abitanti del luogo risparmiando solo alcune ragazze e i bambini. Il gruppo di scorridori fu impegnato nello smembramento e nella composizione di adeguati pacchi per il trasporto dei cadaveri sino al giorno dopo. Il capo, che all’epoca era giovane, si era portato il torso scuoiato di un uomo sulla schiena, oltre a braccia e gambe legate insieme su ogni spalla e una testa avvolta in un involucro di foglie di palma appeso al fianco.
Una volta giunto ai sobborghi del villaggio fu colpito da un suono debole ma persistente: era un bambino che piangeva, un bimbo di meno di un anno, appeso a un albero sul sentiero in un biium, una borsa di rete. Sua madre doveva essere corsa fuori dalla capanna non appena aveva udito il fragore degli scorridori e, nel disperato tentativo di salvare il suo piccolo, lo aveva nascosto là prima di essere uccisa; il capo prese la borsa di tela e se la passò sulla spalla. Dopo alcuni passi il piccolo, confortato dal calore e dal ritmo dei passi del padre adottivo, si tranquillizzò e si addormentò. Non sapeva di essere trasportato tra le membra sezionate dei suoi veri genitori.
Mentre mi narrava questa straordinaria storia, il vecchio prese la mano di Oblankep tra le sue con un gesto di grande tenerezza. Al termine con voce tranquilla aggiunse in Pidgin: " Compresi in quel momento che mio figlio sarebbe stato un uomo buono. Non pianse, ma rimase calmo e tranquillo per tutta la strada".
Oblankep guardava in viso suo padre, sorridendo. Io ero ancora turbato e confuso da questo racconto di amore familiare quando ci raggiunse la moglie del capo.
"Mangiammo i suoi genitori atbalmin. Erano grassi. Mi concessero tutto il latte di cui avevo bisogno per nutrire due bambini; Oblankep crebbe forte grazie a loro. "
Vicende come quella di Oblankep erano perfettamente accettabili a Yominbip. In verità erano la norma, e narrare la storia delle origini di una persona in questo modo pareva rinforzare il segno di appartenenza alla società yominbip di ogni componente della tribù.
Dall’inizio degli anni Settanta gli abitanti di Yominbip avevano affrontato tempi duri. L’amministrazione australiana riuscì efficacemente a impedire la pratica delle scorrerie, proteggendo le comunità circostanti. A causa della spaventosa mortalità infantile c’erano relativamente pochi bambini a Yominbip e il villaggio stava rapidamente spopolandosi." (Tratto da Tim Flannery, "L’ultima tribù", Corbaccio, p. 143)

http://www.ilpalo.com/storia/inviate-a-mailing-list-nuova-storia/edgardo-bambino-rapito-papa-pio-ix.htm

sabato 12 aprile 2008

Un importante personaggio della polizia torinese preunitaria è Giacinto Chiapussi

Assessore di Pubblica Sicurezza e Questore

Giacinto Chiapussi

Primo Questore di Torino capitale d’Italia


A cura del Centro Studi e Ricerche della Polizia di Stato ANPS di Torino

Un importante personaggio della polizia torinese preunitaria è Giacinto Chiapussi.


Dalla sua scheda personale aggiornata al 1854, ritrovata all’Archivio di Stato di Torino, apprendiamo che era nato a Susa, l’11 novembre 1815. Nel 1854, è sposato e padre di due ragazzi; possiede “per il valore di lire centomila e più per la massima parte in beni stabili nella provincia di Susa ed in alcuni capitali”.

Laureato in legge nel 1841, Chiapussi è stato nominato luogotenente giudice della sezione Dora di Torino nel 1845, nel 1847 giudice di mandamento a Ormea e, infine, il 4 novembre 1848 assessore di P.S. (equivalente all’attuale commissario) a Torino, inizialmente alla sezione Borgo Po e in seguito a quella di Po. Sempre nella sua scheda personale, alla casella Condotta morale, attività e capacità, leggiamo:

“Regolato. Voglioso di agire e sagace. Sebbene talvolta troppo confidi nelle sue congetture, questo leggero difetto è largamente riparato dall’esito felice di non poche sulle molte operazioni che conduce. Animoso affronta qualunque emergenza. È pertanto un buon assessore”.

Il giudizio, datato 12 aprile 1854, è firmato dall’intendente avv. Giovanni Gallarini, reggente della questura di Torino.

L’avvocato Chiapussi rappresenta la figura più rilevante fra i funzionari della questura torinese.

Dimostra una solida cultura giuridica, con la pubblicazione, nel 1851, dell’opuscolo Alcuni cenni sull’Amministrazione di Sicurezza Pubblica e sul progetto di legge presentato alla Camera dei Deputati il 15 maggio 1851 dall’avvocato Sineo Relatore della Commissione, dove muove critiche vissute a questa proposta di legge.

Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 1854 una epidemia di colera si estende da Genova a Torino. Sui giornali le notizie della temibile malattia e i bollettini di ammalati e morti fanno la parte del leone. Trova spazio anche la clamorosa notizia di furti considerevoli, commessi nelle abitazioni di ricche famiglie torinesi, mentre i proprietari si trovano in villeggiatura in campagna.

Sulle imprese di questa banda di ladri, l’avvocato Giacinto Chiapussi riesce presto a fare luce, arresta i colpevoli e recupera parte della consistente refurtiva (gioielli con diamanti). Il capobanda è Giuseppe Pavia, genio delle serrature, abilissimo nel fabbricare perfette chiavi false. Pavia, al tempo, è un malfattore atipico. Evita ogni forma di violenza e ogni contatto con le sue vittime. Nel contempo sa pensare veramente in grande, come dimostra l’entità della refurtiva dei furti commessi. È capace a mimetizzarsi molto bene nell’ambiente cittadino, ha un rassicurante aspetto di borghese facoltoso e benpensante, assume molte diverse identità e si mostra sempre amabile con tutti e cortese con le signore[1].

Il questore Gallarini, il 16 settembre 1855, invia una dettagliata relazione al ministero dell’interno, per elogiare Chiapussi, che ha condotto inchieste sfociate nell’arresto di ben tre bande di ladri, con numerosi adepti: oltre a quella di Giuseppe Pavia (agosto 1854), quella di Rubiaglio (novembre 1854) e quella di Bontempo e Dragone, specializzata come quella di Pavia nei furti nelle case di famiglie torinesi nobili e facoltose (agosto 1855).

Il questore Gallarini segnala al ministero questi clamorosi successi ed evidenzia il ruolo positivo di assessori come Chiapussi, che accrescono nella popolazione il rispetto e l’ammirazione per le forze di polizia.

L’avvocato Chiapussi risolve brillantemente anche il caso dell’uccisione del sacerdote Giovanni Cavallo, strangolato nel suo letto nella notte dal 24 al 25 febbraio 1856, e derubato degli oggetti di valore. Già il 26 febbraio, l’assassino è arrestato: è Giuseppe Coltelli, un toscano di ventisei anni, proveniente da una buona famiglia di Pontedera, allora nel granducato di Toscana. Approdato a Torino, sbandato, Giuseppe Coltelli era senza casa e da alcune notti dormiva presso il sacerdote Cavallo, che generosamente lo ospitava. Alcuni giornali si complimentano con l’avvocato Chiapussi e con i suoi dipendenti, per la rapida indagine.

Giuseppe Coltelli confessa: ha ancora in tasca le cedole e l’orologio rubati alla sua vittima. È processato nel marzo dello stesso anno e, di nuovo, i giornali sottolineano il suo aspetto signorile e, soprattutto, il fatto che Coltelli si difenda parlando con grande sicurezza e facilità in italiano e non in piemontese, come gli imputati autoctoni. Coltelli sostiene di aver ucciso il chierico perché sdegnato dalle sue proposte omosessuali. I giudici preferiscono credere che lo abbia strangolato mentre dormiva per derubarlo. Con sentenza del 2 aprile 1856, lo condannano a morte. Il 5 giugno 1856, alle quattro e mezza del mattino, Coltelli viene impiccato. Sulla scala della forca confessa di avere commesso un’altra rapina, rimasta impunita.

Nel 1857 è giunto il momento di nominare un questore proveniente dagli assessori di pubblica sicurezza, con esperienze operative. L’avv. Giovanni Gallarini, che ha ricoperto la carica di questore dal 1854 al 1856, era un intendente, proveniente dalla carriera che oggi diremmo prefettizia. È nominato questore l’avv. Lorenzo Moris, che terrà questa carica fino al 1859.

Con tutte le referenze che abbiamo esposto in precedenza, c’è da chiedersi perché non fosse nominato Chiapussi alla carica di questore di Torino. Non sappiamo rispondere a questa domanda. Non ci sono documenti e non vogliamo tirare fuori ipotesi poco rassicuranti…

Chiapussi, invece, passa alla Amministrazione delle carceri, a quel tempo alle dipendenze del ministero dell’interno. Diviene direttore della Generala, il carcere minorile di Torino, oggi noto come “Ferrante Aporti”. Sul finire del 1859, è direttore delle carceri di Genova, quando viene nominato questore di Torino.

Dal 1860 al 1864, Chiapussi è il primo questore di Torino capitale del Regno d’Italia.

Non è un momento facile, né per il neonato regno, né per la città di Torino. Emergono problemi enormi e non sempre i politici appaiono all’altezza del loro compito.

Chiapussi deve di nuovo occuparsi di Giuseppe Pavia, che è evaso nel 1858 dal bagno penale di San Bartolomeo in Cagliari e ha ripreso la sua attività di ladro a Torino. Tra le sue vittime vi è un signor Agnelli, quando questo cognome a Torino non significa nulla. Pavia è arrestato, il 13 agosto 1861, a Torino. La stampa assicura che Torino è stato liberato da un pericolo e che si sarebbe fatta luce su una lunga serie di furti. Processato e condannato a venticinque anni di lavori forzati, Giuseppe Pavia, che non ha voluto fare confessioni e rivelazioni sui suoi complici, muore nell’ospedale del bagno penale di Gaeta nel 1887.

Il consenso e la simpatia popolare che la cattura di Giuseppe Pavia ha indotto nei confronti della questura torinese, dura un tempo brevissimo. Si addensano di colpo le più fosche nubi, l’arresto di Pavia è dimenticato, sospetto e sdegno verso la polizia aleggiano sulle pagine dei quotidiani politici torinesi.

Dalla seconda metà di agosto 1861, a Torino si verifica un clamoroso e grave scandalo che coinvolge un funzionario della Pubblica Sicurezza, fino ad allora assai stimato. Tutto inizia con le rivelazioni di un giovane criminale pentito torinese, Vincenzo Cibolla, che collabora con la giustizia. Nel corso di un primo processo (1860), Cibolla ha accusato numerosi complici, che formavano con lui la temibile associazione criminale, detta la Cocca, che aveva terrorizzato Torino negli anni tra il 1856 e il 1858. Cibolla, nell’agosto 1861, durante un secondo processo, accusa nuovi complici e rivela con prove inoppugnabili che il capo dell’associazione criminale era Filippo Curletti, delegato della questura torinese. Curletti intanto ha fatto carriera. Incaricato di tutelare la sicurezza pubblica nelle nuove province del regno d’Italia, risiede a Napoli, una delle città “difficili” del regno. Dopo un drammatico confronto con Cibolla in tribunale a Torino, Curletti, ormai smascherato e compromesso, non viene arrestato, ma soltanto sospeso dall’impiego. Ha così il tempo di fuggire all’estero, tra feroci polemiche giornalistiche che denunciano varie complicità nei suoi confronti. Si può affermare che il processo Cibolla rappresenti il vero primo grande scandalo dell’Italia unita.

Chiapussi non è direttamente coinvolto nelle polemiche. Al tempo della Cocca, lui apparteneva alla Amministrazione delle carceri. Qualcuno ricorda che era stato il questore Moris, il grande “patrono” di Curletti. Ma lo scandalo Curletti mette in cattiva luce l’Amministrazione di pubblica sicurezza, l’esecutivo del neonato regno d’Italia e giunge a sfiorare persino lo scomparso conte Camillo Cavour.

La Gazzetta del Popolo, qualificato quotidiano politico torinese, si fa promotore di un “serio riordino della polizia”. La campagna giornalistica mira al miglioramento dell’efficienza della pubblica sicurezza e alla istituzione di un ministero di polizia, che sia in grado di fronteggiare validamente la situazione molto grave dell’ordine pubblico di tutto il regno.

Nel marzo del 1863, il bolognese Marco Minghetti diventa presidente del consiglio, con il fiorentino Ubaldino Peruzzi ministro dell’interno e il napoletano Silvio Spaventa segretario generale del ministero dell’interno. I deputati Minghetti, Peruzzi e Silvio Spaventa sono i portavoce di una corrente antipiemontese che si è creata nel Parlamento e sostengono apertamente la necessità del trasferimento della capitale del regno da Torino in una città con posizione geografica meno periferica e di più forte carattere italiano.

Torino al tempo conta 179.000 abitanti che salgono a 207.000 con quelli dei sobborghi. Per far posto al Senato del regno, dal finire del 1862, la questura è stata spostata da Palazzo Madama e trasferita in piazza San Carlo, di lato alla chiesa di Santa Cristina. Nei mezzanini sotto i portici di piazza Castello, oggi occupati dalla prefettura, sono alloggiati il ministero dell’interno e quello degli esteri.

La gestione “antipiemontese” di Peruzzi e Silvio Spaventa del ministero dell’interno è avvertita a Torino soprattutto dal “peggioramento” delle guardie di pubblica sicurezza, il personale che ha più frequenti rapporti con la cittadinanza.

Nel settembre del 1864 dopo lunghe trattative segrete, il governo Minghetti stipula una Convenzione con la Francia. L’imperatore Napoleone III si impegna a ritirare le sue truppe dallo stato pontificio entro due anni. In cambio, l’Italia rinuncia alle sue aspirazioni su Roma, promette di non attaccare militarmente il territorio del Sommo Pontefice e si impegna a difenderlo da eventuali aggressioni. A garanzia di questa rinuncia, la capitale del regno d’Italia sarà trasferita in una città diversa da Torino. Il governo prevede proteste nella città di Torino e teme che il questore Chiapussi non sia abbastanza “energico” verso i Torinesi. Il ministro dell’interno non lo rimuove dal suo incarico ma, fin dalla firma della Convenzione (15 settembre), in segreto e all’insaputa della questura, chiama da Milano, Firenze, Napoli e Palermo un certo numero di funzionari di sua fiducia, posti a disposizione del segretario generale Silvio Spaventa, ed esautorando di fatto Chiapussi.

Quando è annunciata la decisione del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, il 21 e 22 settembre, i torinesi protestano, civilmente e con ordine come nel loro stile. La forza pubblica, mal guidata dai personaggi prima ricordati, spara sulla folla. Nei due giorni, in piazza Castello davanti al ministero dell’interno e in piazza San Carlo davanti alla questura si contano 52 morti, fra cui due donne, e 187 feriti. Per colpa di manovre di bassa politica, il questore Chiapussi - che dieci anni prima era considerato uno dei migliori funzionari di polizia - chiude male il suo periodo di questore di Torino. Si vuole trovare in lui un capro espiatorio: è ingiustamente rimosso e concluderà la sua carriera parcheggiato in qualche oscura sottoprefettura.

[1] Al curioso personaggio di Giuseppe Pavia, Milo Julini ha dedicato il suo libro L’Arsenio Lupin del Piemonte. Un abilissimo scassinatore astigiano attivo in Torino, capitale del regno di Sardegna e del regno d’Italia fra il 1854 e il 1862, Torino 1999.


http://www.cadutipolizia.it/anps-torino/1854chiappussi.asp

domenica 6 aprile 2008

I silenzi della storia

"Chi sono costoro che parlano a nome della patria? Si era domandato Soardi convinto di completare per se stesso un discorso riferito al colloquio avuto poco prima con J.M.

Maria lo aveva invitato a sedere con voce dolce, ma determinata:>, aggiungendo subito che non avrebbe mai ripetuto, neppure di fronte alle torture, quanto stava per confessargli.

.

, aveva chiesto Soardi con voce dettata dall'impulso.

.

Il racconto della giovane donna si era poi soffermato nei particolari del suo dramma.

.

-Soardi non riusciva a trattenere lo stupore e l'indignazione incalzandola di domande. Era noto che il re Vittorio Emanuele II aveva le mani molto piccole, sproporzionate al suo corpo.

.

La donna dapprima non rispose poi, con molta fatica disse:>.

, quasi gridò Soardi.

.

, continuò il magistrato.

. Abbiamo tratto questo episodio da pagina 175 del libro di Diego Novelli " Amor di Patria"(1) ed una domanda ci è d'obbligo: di chi erano le mani luride ed appiccicose che profanarono la verginità di madamigella Maria? Chi era quel porco di Stato? Chi aveva fatto rapire la minorenne torinese? Chi aveva sistemato il fratello di madamigella Maria per riparare all'infame atto compiuto? Ce lo dice Filippo Curletti a pag. 5 del suo memoriale:.

Alle ore 8 di sera mi vi portai; un portiere senza livrea m'introdusse in una piccola sala semplicemente adorna. Nel punto in cui entrai, il conte di Cavour parlava con un personaggio a me ignoto. Il conte si volse verso di me, e avendomi riconosciuto disse al suo interlocutore:>. Egli diede a queste ultime parole una particolare significanza e sorrise.

Poco appresso mi feci capace di cosiffatto sorriso quando cioè il generale Sanfront (imparai più tardi il suo nome) dopo avermi fatto molte interrogazioni circa la mia famiglia, età, ecc.ecc., mi chiese improvvisamente:>.

In sulle prime rimasi sbalordito alla singolare domanda; poi risposi di sì. Ebbene, riprese il generale, vieni meco ch'io te la faccio conoscere; e sì dicendo lasciammo il ministero.

Non è mia intenzione far parola dei particolari di codesta avventura, colla quale principiai molto miseramente i miei servigi per la causa italiana. Cotale avventura levò gran rumore a Torino, ove da nessuno si ignora la storia di Madamigella Maria D... il cui fratello, poco dopo il fatto, fu nominato capo dell'ufficio delle Poste.

Questa impresa non è la sola del medesimo genere, onde mi sia quind'innanzi occupato; nullameno delle altre farò motto, perocchè, riferendosi alla vita privata, non possono avere alcun interesse per il grave lettore.(2)

Invece a noi interessano questi particolari, Curletti ci ha fatto intendere che chi profanò la verginità di madamigella Maria fu proprio il Cavour quando scrive che il Primo Ministro piemontese"...diede a queste ultime parole una particolare significanza e sorrise..."

Chi non sorrise fu proprio la madamigella di Torino e chissà quante altre verginelle. Fatti gravissimi da condannare penalmente e moralmente; noi ci atteniamo solo ai fatti raccontati dal Curletti per il quale il suo padrone risultava essere un pedofilo, questo si deduce dal racconto testè descritto. Da notare che codesti fatti vennero a galla solo dopo la morte del primo ministro piemontese, quando in quel di Torino vennero alla luce fatti e misfatti che coinvolgevano la polizia durante il processo cosiddetto Cibolla.

Il corso principale della mia città è intitolato al Cavour; speriamo che presto, la commisione per la toponomastica che si insediera a breve cancellerà quel nefasto cognome dalle lapidi della città tirrenica. Quel barbaro signore, quando Cialdini e Persano stavano bombardando Gaeta, intimò loro di raderla al suolo perché i gaetani ed i borbonici ritardavano i suoi piani di conquista.

Da una ricerca storica di Antonio Ciano di prossima pubblicazione

http://www.telefree.it/news.php?op=view&id=54643

martedì 11 marzo 2008

11/12 marzo 1860: 140 anni fa i plebisciti truffa d’ annessione

Un libro smaschera la truffa autoritaria ed antidemocratica del Risorgimento
I plebisciti di annessione alla Monarchia Sabauda, svolti nei territori del Ducato di Parma e Piacenza, del Ducato di Modena e Reggio , nelle legazioni Pontificie della Romagna e nel Granducato di Toscana, l'11 e 12 marzo 1860, furuno una truffa in pieno stile.Cosi' come truffaldini (oggi li chiamerebbero "bulgari" o "mussoliniani") lo furono quelli organizzati nelle Due Sicilie,nelle Marche,in Umbria nei mesi seguenti e nel Veneto nel 1866. A sostenere con forza questa tesi, nel libro "L'invenzione dell' Italia Unita" (Sansoni Editore, Milano 199 pg.504), e' il professor Roberto Martucci, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso l' Universita' di Macerata.Martucci originario di Lecce e residente a Bologna, e' anche il direttore del Laboratiorio di storia costituzionale "Antoine Barnave" presso l'Ateneo di Macerata.Nel suo libro, l’autore compie una disamina molto obbiettiva di quella che lui chiama "operazione politico-militare che nell'arco di soli venti mesi trasforma una penisola frammentata in piu' Stati di dimensione Regione o Provinciale, divisa linguisticamente in una decina di aree fortemente disomogenee, nel Regno d'Italia".Il testo di Martucci, non puo' certamente accusato di avere visioni di "nostalgia reazionaria" per monarchie assolute, Papi-Re, oppure di essere confuso con la retorica e demagogia xenofoba di Umberto Bossi e Mario Borghezio.Al contrario, prendendo spunto dai Carteggi Cavour, l'autore analizza correttamente le cose, "dando a Cesare Quel che e' di Cesare", facendo emergere particolari storici ,che la retorica risorgimentale e nazionalista ha seppellito dal 1860 in poi, sotto un mare di censure.Una retorica risorgimentalista nel segno dello Stato-Nazione, che ha visto come protagonisti negli anni, prima i monarchici liberali, poi i fascisti , da una certa fase della Resistenza anche i comunisti ex "internazionalisti" di Togliatti (che diedero l'ordine preciso di fermare ogni impulso federalista all'interno della Resistenza e del Cln e mandarono a morte, facendo la spia ai nazifasciti, il partigiano autonomista valdostano Emilie Chanoux ) ed infine dal dopoguerra, tutti i partiti Stato-Nazione della prima e "seconda" Repubblica.Cosi' emerge, che al momento del passaggio da un regime politico ad un altro, se da una parte Francesco V d'Este (al contrario di altri suoi predecessori ) ed i rappresentanti pontifici nelle legazioni di Bologna e Romagna non godevano certamente di un largo sostegno, per le politiche fortemente repressive degli ultimi anni ,dall'altra parte la popolazione era insensibile anche ai proclami definiti da Martucci "panitaliani" e non provava certo simpatia per i metodi polizieschi ed altrettanto autoritari dell’uomo di fiducia di Casa Savoia, il Farini. I reggenti del Ducato di Parma e Piacenza e Leopoldo II in Toscana, godevano invece ancora nel 1860 dell'appoggio e della stima della popolazione.L' 11 e 12 marzo 1860 " nei Ducati padani e nelle Legazioni - sostiene Martucci- fu offerta tra l'altro, una falsa alternativa tra annessione e "regno separato" che fu." solo apparente visto che la censura sulla stampa e lo scioglimento dei circoli di opposizione precostituivano un clima di consenso forzoso, ingentilito da distribuzioni gratuite di vino, ma anche irrobustito da qualche energico esempio (come l'assassinio del parmense Luigi Anviti nda) a spese di esponenti dei cessati regimi".Per non parlare dei rimedi presi dall'avvocato Camillo Casarini, della Societa' Nazionale di Bologna per azzerare "il rischio di prevedibili astensioni contadine"."I risultati attestano l'interventismo manipolatorio di Luigi Carlo Farini molto meglio di mille commenti, ma al tempo spesso, riducono drasticamente l'efficacia del voto in termini di spendibilita' politica" scrive Martucci che continua " la circostanza che su poco piu di mezzo milioni di chiamati alle urne, vi siano percentuali assolutamente irrisorie di voti nulli e voti di opposizione ( favorevoli ad un "regno separato" :756 lo 0,1% dei votanti!) finisce con rendere ininfluente politicamente questo voto, anche come mero sondaggio d'opinione".Su Luigi Carlo Farini, dittatore dei territori gia' Ducali e delle Legazioni ,ed autore dell'unificazione politica delle popolazione emiliane (cui sono dedicate Vie e piazze oggi in Emilia e Romagna e su tutto il territorio dello stato italiano) nel libro sono contentute ricostruzioni storiche e testimonianze dirette dell'epoca,in cui colui che organizzo' i plebisciti, appare molto piu’ simile ad uno dei personaggi della Tangentopoli dei giorni nostri che ad un eroe.Martucci parla di lui come di un "autoritario" , che "pose seri problemi" a Cavour. Un personaggio sul quale cadono pesanti ombre morali. Tanto che nelle Rivelazioni di Filippo Curletti, che fu capo della polizia di Farini, si parla di episodi come le "manifestazioni popolari" in suo sostegno, non avevassero nulla di spontaneo (sempre gli stessi metodi…70 anni dopo ci fu chi si invento' persino le squadriglie di aeroplani che si muovevano da un aeroporto all'altro per essere ripresi dai Cinergionali Luce si chiamava Mussolini nda) .Per non parlare dell'episodio della fusione e sparizione del tesoro ducale e delle relative finanze da parte della moglie di Farini, Genevieffa Cassiani.Della cosa fu poi accusato naturalmente il Duca Francesco V d'Este.Nel 1860 Curletti, fu arrestato per reati comuni, ma come racconta il libro "pochi anni piu' tardi gli venne data l'opportunita' di fuggire, indizio evidente che il dossier in suo possesso gli garantivano l'impunita' ,scogliandole l'eventuale morte per causa accidentale'". Fu truffa, anche nei territori del Granducato di Toscana, "anche se in misura leggermente meno pesante che nei territori governati da Farini " , dove a testimoniare la truffa sono gli stessi diplomatici francesi che annotano le peripezie di Bettino Ricasoli: "pressioni irrestistibili,fa diventari unitari antichi partigiani del granduca,scioglie circoli, procede di tanto in tanto a degli arresti sostituisce gonfalonieri (sindai)…raccomandando di inquadrare militarmente gli elettori per far votare i campagnoli sotto il peso delle gerarchie cittadine".Secondo l'ambasciatore francese di allora Mosburg nel dispaccio del 5 marzo 1860 rileva che: "le popolazioni non saranno costrette nel vero senso del termine, ma il solo fatto che l'opposizione non abbia ne' organo ne' facolta di discutere, inficiera' sempre la sincerita' di questo voto".E cosi' anche la Toscana fu annessa con i metodi "democratici" del buon Ricasoli. Il 21 ottobre si svolse il plebiscito truffa nelle Due Sicilie(in 238 distretti elettorali su 292 nemmeno un voto contrario…ben 20 a Palermo su 36.000 votanti.Il tutto a conclusione dei massacri e delle pulizie etniche dell'esercito dei Savoia contro i "briganti".Una pulizia etnica , con tanto di campi di concentramento per i prigionieri delle Due Sicilie, mandati a morire di freddo sulle nostre Alpi e ancora moribondi o gia' cadaveri, buttati nella calce per viva per far perdere ogni traccia, come testimoniano diversi libri.Insomma gli stessi metodi utilizzati piu' avanti da gente come Hitler, Mussolini, Stalin, Tito, Pol Pot, Mao, fino ai Milosevic e compari dei giorni nostri. Il 4 novembre 1860, fu la volta dell'Umbria (268 voti contrari su 97.348 votanti…) e delle Marche (dove si registrarono 0 voti nulli!) .La prima tornata dei plebisciti farsa, si rilevaro’ un ottimo precedente per i futuri inganni in Veneto ed un ottimo esempio per il dittatore fascista Benito Mussolini che copio’ pari pari I metodi dei Savoia e dei plebiscisti di annessione per I suoi plebisciti fascisti (schede e urne separate, intimidazioni e violenze). A 140 anni esatti di distanza, agli occhi di qualsiasi cittadino democratico e realmente liberale (chi oggi non si definisce tale?) appare inaccettabile quello che accadde nel 1860 e poi nel 1866, come nei plebisciti del regime fascista.Eppure , I plebisciti fascisti vengono giustamente condannatim questi no , perche’ questo e' di fatto il fondamento giuridico e storico dell'Italia "una ed indivisibile" (pena la galera via articolo fascista del Codice Rocco).Una truffa!A questo punto l’unico rimedio e risarcimento morale e politico , e’ chiedere con forza (come minimo), che in ognuna delle Regioni e Comunita’ attualmente riconosciute, si possano svolgere REFERENDUM PER L’AUTOGOVERNO (autogoverno vero, non il decentramento chiamato falsamente federalismo che federalismo non e’…) sotto controllo internazionale .E poi trasformare gli Statuti Regionali in vere e proprie Costituzioni, con leggi esclusive.Inoltre andrebbe riconosciuto il sacrosanto diritto all’autodeterminazione pacifica e per via referendaria, perche’ nulla e’ eterno.Non lo e’ stato l’impero romano, non lo sono stati i Ducati e le Repubbliche, non lo sara’ lo stato italiano fondato tra l’altro su plebisciti truffa di stampo ‘mussoliniano –bulgaro’.E sara’ nemmeno eterna l’Unione Europea, che non sottopone alla volonta’ democratica dei cittadini le sue scelte politiche ed economiche (perche’ nello stato italiano non e’ stato organizzato un referendum sul Trattato di Maastricht o su quello di Amsterdam ad esempio ?).

http://utenti.lycos.it/libertaemiliana/plebisciti.html

sabato 16 febbraio 2008

Un agente segreto di Cavour truccò le votazioni del 1860

«Così io, agente segreto di Cavour, nel 1860 truccai le votazioni per l' unità d' Italia», è il titolo di un singolare articolo pubblicato dal Diario, in questi giorni in edicola. Il testo è stato scritto dopo il 1861 da un misterioso J. A., sigla sotto cui si nasconde Filippo Curletti, agente segreto di Cavour. Curletti rivela che le votazioni del Plebiscito (marzo 1860) per l' annessione al Piemonte delle regioni italiane via via conquistate, furono da lui stesso truccate. A titolo di esempio, ecco quello che scrive l' agente segreto del conte: «~ più dei quattro quinti degli abitanti dell' Emilia non si sono giammai approssimati all' urna!~ In ogni modo le manifestazioni che nelle città precederono e accompagnarono il suffragio, furono egualmente da noi organizzate~». Il documento attribuito a Filippo Curletti è stato scoperto da Giuseppe de Lutiis, il massimo studioso italiano dei servizi segreti, che lo ha inserito in un libro pubblicato dalla regione Toscana dal titolo I servizi segreti. Come funzionano, a che cosa servono, come controllarli.

Repubblica — 16 febbraio 2001 pagina 40 sezione: CULTURA

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/02/16/un-agente-segreto-di-cavour-trucco-le.html

sabato 9 febbraio 2008

La tradizione garibaldina a Langhirano – Il garibaldino Luigi Gonizzi detto Barsanti

4) LUIGI GONIZZI E’ IL FUTURO GARIBALDINO. IL NOME LUIGI (LOUIS) CHE GLI VIENE IMPOSTO HA UN’ ORIGINE FRANCESE

Luigi Michele Fortunato Gonizzi, il personaggio su cui è incentrato questo racconto intrecciato alle vicende del Risorgimento, nasce il 2 ottobre 1834 alle ore una pomeridiana alla presenza del delegato del Comune di Compiano, Distretto di Borgotaro, Ducato di Parma. Il nome Luigi ha un’origine francese, Louis significa infatti “glorioso in battaglia”. La dichiarazione che avviene il 4 dello stesso mese viene fatta alla presenza di Giuseppe Cardinali e Francesco Corvi di anni 56 ambedue domiciliati a Compiano. Le firme sottoscritte al documento di cui sopra sono di Domenico Gonizzi, Francesco Corvi e Giacomo Maggi (che non appare citato fra i presenti). Quando viene battezzato il figlio Luigi nella chiesa di San Giovanni Battista Domenico Gonizzi aveva 52 anni, un’età più consona allo status di nonno che a quello di padre. Secondo la testimonianza di Ermanno Scagliola priore laico della Arciconfraternita di S.Rocco (vedi paragrafo 6) risulta che prima di essere battezzati tutti i neonati (maschi e femmine) di Compiano venivano iscritti nella Confraternita i cui registri purtroppo furono in massima parte distrutti dal fuoco durante i rastrellamenti tedeschi del 19 luglio 1944 avvenuti nell’Alta Val Taro. Luigi a 20 anni è nelle liste della provincia di Parma per la coscrizione obbligatoria dell’anno 1854, l’anno in cui avviene l’attentato mortale del Duca Carlo III di Borbone, viene però esentato (eccettuato) per abito scrofoloso. In altre parole Luigi Gonizzi è affetto da una patologia, la scrofola che può preludere a causa dell’ingrossamento delle ghiandole in tubercolosi. Può essere interessante ricordare che in quel periodo oltre alla scrofola le malattie più frequenti nel proletariato cittadino erano rachitismo, tubercolosi, febbre puerperale, la difterite (la più pericolosa delle malattie infantili) e malaria, nonché la pellagra e il gozzo fra i lavoratori della terra. Risolto come sembrerebbe il problema di tipo sanitario Luigi si unisce in matrimonio qualche anno dopo nel ‘68 a Lugagnano Val d’Arda (PC) nella chiesa di San Zenone con la giovanissima Adele Silva, nata ad Agazzano (PC) nel 1852, figlia di Vincenzo (usciere di pretura e possidente) ed Ermelinda Bargoni. L’intera famiglia Gonizzi, come risulta dal censimento del 1857, abitava a Parma in un alloggio in affitto di Borgo della Posta n° 19 al secondo piano, nell’edificio adiacente alla chiesa di Santa Maria Maddalena. La famiglia era composta da Domenico già cancelliere di pretura e vedovo dell’amata consorte Luigia Limidi, i figli Luigia, Margherita, GianAndrea e Luigi. In quell’anno come servente definita “persona estranea che dimora e pernotta nella famiglia” risulta presente nella famiglia Gonizzi la diciottenne Luigia Gandolfi di Ferdinando nata a Langhirano. Sulla Gazzetta di Parma del 9 e 10 novembre 1859 ho individuato l’elenco dei sottoscrittori parmigiani con le relative offerte per l’acquisto del milione di fucili (Enfield, Barnett, ecc.), la campagna promossa dal generale Garibaldi e dai patrioti milanesi Besana e Finzi. Fra marzo e giugno del 1859 Garibaldi era stato impegnato su incarico del Ministro Urbano Rattazzi (1810-1873) in una sorta di tour frenetico per l’inaugurazione di svariati tiri al bersaglio nel nord del paese. La prima società di tiro al bersaglio fu quella di Genova, costituitasi nel 1852, con a capo Antonio Mosto, fervente mazziniano e collezionista di armi di pregio. Le idee repubblicane che professò lo portarono a divenire membro di alcune organizzazioni democratiche fra cui la Società democratica e la Società emancipatrice. La costituzione dei comitati di arruolamento e dei tiri al bersaglio fu promossa ufficiosamente dal primo ministro Urbano Rattazzi. In una lettera dell’aprile 1862 contenuta nell’Archivio del Risorgimento di Roma Garibaldi così esortò: <>. Il 24 marzo del 1862 venne pubblicato nella città di Parma il regolamento per il concorso di inaugurazione del Tiro al Bersaglio. La società promotrice aveva allestito il regolamento affisso nelle vie della città, stampato dalla Tipografia Grazioli. Presidente era stato eletto Garibaldi, vicepresidenti il ten. colonnello Gaspare Trecchi e il Prof. Antonio Oliva. Fra i consiglieri un caro amico dell’Eroe, Faustino Tanara. L’arrivo di Garibaldi previsto inizialmente per il 25 marzo era stato spostato al 30 marzo per i molti impegni che lo stesso aveva a Milano.

E’ lo stesso Luigi Gonizzi che il 5 ottobre 1859 offrì la pistola al Conte piacentino Luigi Anviti il modo da consentirgli di suicidarsi in modo “onorevole” evitando il possibile massacro ad opera della popolazione infuriata che più volte tenta di forzare l’ingresso alla caserma degli ex dragoni (oggi via Bodoni). Nel libro di Modesto Fulloni “La frana di Carrobio” stampato dalla Tipografia Aroldi, Casalmaggiore 1876, ristampato con un nuovo titolo “Il secolo delle Duchesse – Parma da capitale a provincia del Regno – 1816–1870” dalla editrice PPS di Parma nel 1994 è riportato il colloquio tra un carabiniere e lo sfortunato colonnello :”Un Carabiniere presentossi a lui dicendole Sig.Colonnello Ella è un soldato…. Prenda questa pistola; per lei non vé più altro scampo, non dia loro la soddisfazione d’averlo vivo. Il vile rispose, non ho il coraggio di farlo”. Il carabiniere citato dal Fulloni è in realtà l’applicato di pubblica sicurezza Luigi Gonizzi testimone partecipe alle fasi del drammatico evento che finirà in tragedia. Nel libro di Rocco Piscitelli “La Questura di Parma – Nel quadro degli uffici di P.S. parmensi dal 1859 al 1961” edito dalla Tipografia La Nazionale in Parma 1962 viene precisato dall’autore che il periodo del 1859 è caratterizzato dal trapasso dall’antico al nuovo dominio, dai Borboni all’Italia unita, e “in cui il territorio dell’ex ducato è governato da istituzioni provvisorie dove i corpi di polizia sono adeguati alle nuove esigenze (procedendo) con criteri più che tecnici e amministrativi, meramente politici”. Il figlio di Luigi vale a dire mio nonno Adelmo ricorderà sempre nelle serate fredde d’inverno i particolari raccontati da suo padre che la furia omicida del popolo non si placò se non dopo lo squartamento dell’Anviti a cui venne strappato il cuore, la recisione del capo con una daga (utilizzata come sega) e particolare assolutamente inedito gli organi genitali del povero infelice inchiodati alla porta di casa dell’amante in Borgo dell’Asse (oggi Borgo del Parmigianino). Sul massacro del Conte piacentino in Per la Val Baganza 2003 avevo elaborato una ricostruzione storica utilizzando tre testi di cui uno assolutamente raro che consentono di fermare l’attenzione del lettore sul ruolo giocato nella vicenda dell’Anviti dai servizi segreti del Regno del Piemonte (o Regno Sardo) e in particolare sull’Ispettore di P.S. Filippo Curletti e su Giuseppe La Farina a quel tempo Capo di Gabinetto del Cavour e suo stretto collaboratore già dal 1856. Li cito di seguito: 1) Roberto Martucci “L’invenzione dell’Italia unita 1855-1864” ed. Sansoni 1999, 2) Vito Di Dario “Oh, mia patria! Un inviato speciale nel primo anno d’Italia” ed. Le Scie Mondadori 1990, 3) Ernesto Ravvitti “Delle recenti avventure d’Italia” stampato dalla Tipografia Emiliana – Venezia 1864. Il terzo volume composto da due tomi, appartenuto al generale di Corpo d’Armata Manlio Mora (Parma 1883-1973), offre ai lettori una versione più vicina agli interessi della Casa dei Borbone. La questione che viene raccontata dei frequentissimi furti, degli stupri, degli assassini accaduti negli anni 1856, ‘57, ‘58 tanto “che nessuno osava più avventurarsi di notte per le vie alquanto solitarie, e molto meno uscire alla campagna” nella città di Torino hanno come protagonisti gli agenti segreti del Regno Sardo e in particolare Filippo Curletti “promotore ed ordinatore degli assassini”. Un quarto libro “Sangue a Parma (1848-1859)” di Giansiro Ferrata ed Elio Vittorini era stato pubblicato una prima volta nel 1939 col titolo “La tragica vicenda di Carlo III” poi ristampato con i tipi di Arnoldo Mondadori nel 1967.

Mentre Luigi Gonizzi, qualche tempo prima di raggiungere Garibaldi e l’esercito meridionale nell’agosto 1860, fece l’offerta nell’ex capitale presso il “Caffè del popolo” di Pietro Violi, un repubblicano convinto, padre di Italo e Icilio (che sarà uno dei Mille), il dr. Domenico, nello stesso giorno, per offrire il denaro per la campagna del milione di fucili, scelse l’esercizio della tipografia di Pietro Grazioli che fra il 1860 e 1864 venne ribattezzata Tipografia Cavour.


Giancarlo Tedeschi (pronipote materno del ten. col. dei garibaldini Luigi Gonizzi)


http://www.prefetturadiparma.it/pubblicazioni/convegno%20di%20langhirano/Intervento_Tedeschi.asp

giovedì 15 novembre 2007

La verità sul risorgimento italiano dal libro del Curletti

Filippo Curletti, agente segreto del Conte Cavour e capo della polizia di farini, visse da protagonista le vicende che condussero all'unità d'Italia.
In qualità di agente il Curletti veniva regolarmente messo al corrente dei numerosi segreti e complotti che stavano alla base della politica sabauda.

Curletti pubblicò le sue rivelazioni dopo la proclamazione dell'unità d'Italia e avvertiva fin dall'inizio i suoi lettori:

"Qualcheduno griderà forse allo scandalo: è più comodo che di confutare. Ma quelli che mi avranno letto e che vorranno rendere giustizia alla moderazione del mio linguaggio, riconosceranno che, se vi ha scandalo, non è mia colpa, ma è colpa dei fatti".

Dal libro del Curletti si può perciò dedurre che il risorgimento italiano non fu un movimento popolare realizzato da eroi disposti a sacrificarsi in nome della libertà, bensì un'azione programmata e pianificata da élite borghesi che non esitarono ad adottare ogni stratagemma per giungere al loro scopo: la vittoria dei liberali contro il legittimismo e la tradizione.

Ma cominciamo ad approffondire:

Il giovane Curletti, di origine romagnole, si inseriva, contro il volere della sua stessa famiglia, fedelissima al Papa, nella vita del Piemonte in appoggio ai liberali nel 1858.
Come primo incarico assunse il cordinamento dei comitati sorti in Toscana per creare finte agitazioni popolari: "I miei uomini dovevano disperdersi per gruppi nei quartieri esterni della città e cominciare a produrre degli assembramenti colle grida di : Viva l'indipendenza! Abbasso i Lorena!".

L'opera di conquista del territorio italiano da parte dello stato piemontese muoveva già i suoi primi passi basandosi su farse appositamente messe in scena per andare a colmare quella carenza di protesta che era invece necessaria per giustificare la guerra.


Continua...

http://freeforumzone.leonardo.it/lofi/La-verit-224-sul-risorgimento-italiano-dal-libro-del-Curletti/D3335688.html

martedì 1 marzo 2005

Novità: LA VERITA' SUGLI UOMINI E SULLE COSE DEL REGNO D'ITALIA di Filippo Curletti

Queste straordinarie rivelazioni, che immancabilmente gettano una luce nuova sugli avvenimenti e sugli uomini che hanno costruito la storia del Risorgimento, ci mostrano finalmente il processo che portò all’unificazione italiana per quello che veramente fu, dopo che per decenni una certa storiografia di parte ce lo aveva venduto come l’intoccabile e indiscutibile azione eroica di valenti personaggi che si fecero portavoce di un fantomatico popolo oppresso.
Nella sua qualità di agente, Curletti venne messo al corrente dei numerosi segreti e complotti alla base degli avvenimenti sfociati nell’unificazione della penisola italiana e nella vittoria definitiva dei liberali contro il legittimismo e l’assolutismo. Tali segreti lasciano emergere finalmente come il Risorgimento, ben lungi dal poter essere definito un movimento popolare, voluto dalla gente e realizzato infine da eroi disposti a sacrificarsi in nome della libertà, fu invece in realtà un’azione lungamente programmata e pianificata da alcune élites borghesi che machiavellicamente non esitarono ad adottare stratagemmi tutt’altro che onesti o eticamente ortodossi per giungere allo scopo.


Filippo Curletti
LA VERITA' SUGLI UOMINI E SULLE COSE DEL REGNO D'ITALIA
Rivelazioni di J.A.
Antico Agente segreto del Conte Cavour

a cura di Elena Bianchini Braglia
Presentazione di Walther Boni
Edizioni Tabula fati
[ISBN-88-7475-043-9]
Pagg. 80 - € 3,50

http://www.edizionitabulafati.it/veritauomini.htm