sabato 5 luglio 2008

I plebisciti della vergogna

Filippo Curletti fu un “patriota”, di quelli che fece il risorgimento e fece l’Italia. Stretto collaboratore di Cavour, ebbe l’incarico di capo della polizia politica a Modena e sovrintese alle votazioni per il plebiscito di annessione nella città. Così ricorda le operazioni di voto nel suo Memoriale: «In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, [delle schede] degli assenti - chiamavamo ciò completare la votazione – si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti».
La citazione è tratta da I panni sporchi dei Mille (Liberal Edizioni, Roma 2003), di Angela Pellicciari, autrice anche dell’articolo che riportiamo di seguito, nel quale spiega come si svolsero realmente i plebisciti che servirono a dare apparenza di legittimità, di fronte alle potenze internazionali, alla conquista armata della penisola voluta dai Savoia.
A Napoli, per sommo scorno, al plebiscito del 21 ottobre 1860 è intitolata proprio la grande piazza prospiciente Palazzo Reale, la cui esatta denominazione è Largo di Palazzo. A 148 anni di distanza e a Regno d’Italia scomparso, il solo commento che si può fare è che “chi di plebiscito ferisce, di plebiscito perisce”.



I plebisciti della vergogna

Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai Savoia e dai liberali, in nome della costituzione e della libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio ripetuta. I popoli - si diceva (e si con­tinua a ripetere) - “gemevano” sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque, andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non da schiavi.

Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con cura. Peccato che sia radicalmente falsa.

Prima di invadere (senza dichiara­zione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la propria di­retta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli Stati italia­ni, il governo sardo-piemontese ave­va fatto in modo che avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava di garantire il buon nome del re sabaudo di fron­te all’opinione pubblica italiana e straniera.

Ecco cosa scrive Giuseppe La Fari­na, braccio destro di Cavour, in una lettera a Filippo Bartolomeo: «È necessario che l’opera sia comin­ciata dai popoli: il Piemonte verrà, chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla con­quista, e si tirerebbe addosso una coalizione europea». Il re Vittorio Emanuele - continuava la lettera - dice: «io non posso stendere la mia dittatu­ra su popoli che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pre­testo alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno».

Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali so­no riusciti ad organizzare le “insor­genze” popolari solo a Firenze, a Perugia e nei ducati.

A Napoli come a Roma non c’è stato nulla da fare. E dove pure sono riusciti ad orga­nizzarle, lo hanno fatto con la cor­ruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati un’ottantina di carabinieri fatti veni­re per l’occasione da Torino e spac­ciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non difettava alla classe dirigente piemontese, desi­derosa di conquistare un regno pre­stigioso come l’Italia.

A cose fatte, a conquista avvenuta, si trattava di mostrare urbi et orbi quanto felici fossero gli italiani del nuovo stato di cose. A questo sco­po i padri della patria hanno fatto ri­corso ai plebisciti. Hanno cioè chia­mato tutta la popolazione a votare (cosa inaudita in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% degli abitanti) perché tutti, ma pro­prio tutti, avessero modo di manife­stare in modo democratico, e cioè col voto, il proprio entusiasmo uni­tario.

Indetti l’11 e 12 marzo 1860 in Emi­lia, Toscana, Modena e Reggio, Par­ma e Piacenza, il 21 ottobre in Italia meridionale, il 4 e 5 novembre nelle Marche e nell’Umbria, i plebisciti hanno dato un risultato strabilian­te. Praticamente tutti erano per Vittorio Emanuele Re d’Italia. Non c’era nessuno, quasi nessuno, che rimpiangesse i vecchi governanti. Meno che mai il Papa.

Il fatto è strano, bisogna dirlo. Co­me strana fu la straordinaria afflu­enza alle urne, tenuto soprattutto conto che la maggioranza della po­polazione era analfabeta e che la prassi del voto era una novità quasi assoluta.

Tanta stranezza ha una facile spiegazione: il dato plebiscita­rio, tanto propagandato, è stato il risultato di una truffa gigantesca, confezionata ad arte.

Il capo della polizia politica Filippo Curletti, così ricorda nel suo Memo­randum: «Ci eravamo fatti rimette­re i registri delle parrocchie per for­mare le liste degli elettori.

Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si pre­sentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmen­te in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti. Non è mala­gevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’in­differenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo».

Curletti ci tiene a chiarire che le co­se stanno proprio come le racconta e specifica: «per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cogni­zione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze».

Per quanto riguarda la Toscana abbiamo una divertente testimonianza raccontata dalla Ci­viltà Cattolica. Lì una pressante cam­pagna di stampa aveva dichiarato «nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stam­pare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno sepa­rato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’an­nessione. Chiedevano i campagnuo­li che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse por­tata cadeva in multa. Subito i con­tadini; per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sa­pere che cosa contenesse».

Il 9 ottobre, da Ancona, Vittorio Emanuele aveva indirizzato ai Po­poli dell’Italia meridionale il seguen­te proclama: «Le mie truppe si avan­zano fra voi per raffermare l’ordine: io non vengo ad imporvi la mia vo­lontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestar­la: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna».

Forte del fa­vorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre il Re aveva dichiarato: «Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decre­to della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscien­za d’italiano».

«Uscite, popolo mio, da Babilonia» (Ap 18,4). Bene ha fatto Pio IX a proclamare il non expedit. l cattoli­ci, con quel tipo di Stato, non dove­vano aver nulla a che fare.

Il Timone, novembre 2003)

http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=fr&pg=647

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