Approfondiamo il discorso sull’integralismo religioso raccontando due episodi.
Un evento è del 1858, quando la Chiesa Cattolica non era ancora entrata nell’epoca della tolleranza, un ingresso auspicabile anche per le frange estreme dell’Islamismo.
Nel brano si parla del rapimento di un bambino ebreo, rubato alla sua famiglia d’origine e poi cresciuto in una nuova famiglia cristiana. Diventò in seguito sacerdote, e fu amico del Papa, l’uomo che aveva ordinato il suo rapimento.
Vicenda parallela - sempre per grandi linee - a questa del 1858, è il caso del bambino cubano finito in Florida e poi restituito ai suoi genitori.
Anche la seconda vicenda - siamo nella Nuova Guinea del 1960 - tratta di rapimenti di bambini. Anche qui - contro ogni aspettativa - il figlio rapito ama e rispetta profondamente il nuovo padre adottivo, lo stesso che ha ucciso il suo padre naturale.
Ecco l’episodio che riguarda i cristiani.
"Pier Gaetano Feletti, come sacerdote e inquisitore di Bologna, era stato uno dei più importanti ingranaggi del Sant’uffizio e, quindi, dell’apparato repressivo parallelo della Santa sede. Appena venti mesi prima che Bologna, nel 1859 dopo la II Guerra d’Indipendenza, decidesse per l’unione con il Piemonte, Faletti era stato l’organizzatore di uno dei più noti attentati ai diritti dell’uomo perpetrati nell’Europa del secondo Ottocento.
Il 23 giugno 1858 - appena un anno prima del cambio di regime - egli aveva infatti organizzato il rapimento legale di un bambino ebreo di 6 anni, Edgardo Montana, strappato letteralmente dalle braccia della madre da un drappello di carabinieri pontifici che obbedivano a un suo ordine. Braccato come un criminale e sottratto agli affetti familiari, quel bambino non avrebbe mai più giocato nella sua casa. Trasferito tempestivamente a Roma nella Casa dei Catecumeni, ribattezzato con il
nome di Pio Edgardo in onore del pontefice regnante, avrebbe subito nel decennio successivo un pesante condizionamento mentale, tanto da abbracciare gli ordini religiosi, diventando uno dei più eruditi e faziosi predicatori di parte cattolica, uno dei più accesi fautori della conversione al cattolicesimo degli antichi correligionari israeliti.
Per quanto sia stato di recente riproposto dallo storico americano David I. Kertzer in uno studio avvincente sul piano narrativo e contenutistico, il caso Montana presenta tuttora rilevanti margini di ambiguità. Il piccolo Edgardo aveva attirato su di sé l’attenzione dell’inquisitore Feletti perché una domestica della famiglia Mortara, Anna Morisi, asseriva di averlo battezzato di nascosto. In tal caso, l’ordinamento canonico non consentiva di lasciare una creatura convertita nella famiglia d’origine. Ma la domestica Anna Morisi era analfabeta e le successive richieste giudiziarie dimostrarono che era digiuna riguardo alle modalità di somministrazione dei sacramenti. Per di più, ella fu presa in considerazione per dare basi legali al rapimento di Edgardo, benché la sua moralità la rendesse per molti versi inattendibile agli occhi della stessa Chiesa. Era infatti di pubblica notorietà che Anna Morisi intrattenesse intense relazioni sessuali con parecchi soldati austriaci di stanza a Bologna, fatto che ci consente di mettere a fuoco un altro aspetto della vicenda.
La fine della fiammata quarantottesca aveva accentuato i caratteri di sovranità limitata dello Stato Pontificio. Roma era presidiata dai francesi che vi mantenevano una forte guarnigione, rinforzata da una significativa presenza navale nel porto di Civitavecchia; una volta trasformata la città eterna in un protettorato bonapartista, il papa Pio IX, suo malgrado, finiva col figurarvi di fatto come semplice vescovo della seconda città dell’impero.
Bilanciavano questa presenza guarnigioni austriache ad Ancona, Bologna, Ferrara ed altri centri minori. Ora, che un bimbo di sei anni potesse essere rapito alla sua famiglia senza che l’imperial regio Comando delle truppe d’occupazione ne fosse preventivamente informato, appare inverosimile. Di questa incredulità si fece immediatamente portavoce il governo della Prussia - interessato a contendere all’Austria l’egemonia della Germania - protestando ufficialmente contro "il rapimento del giovane Mortara in una città occupata dalle truppe austriache che non hanno potuto impedire con la loro presenza una simile violazione della legge morale di tutti i popoli civili".
Non si dimentichi, infatti, che dal 17 maggio 1849, giorno dell’arrivo a Bologna dei primi reparti austriaci, anche se formalmente la città non era rimasta per un intero decennio in stato d’assedio, le autorità pontificie (civili, militari e di polizia) non potevano più adottare provvedimenti di un certo rilievo senza darne preventiva comunicazione al Comando asburgico. Per di più, la sottrazione violenta di un bambino alla patria potestà poteva innescare reazioni incontrollabili, rendendo difficile la tutela dell’ordine pubblico; questa considerazione rendeva inevitabile un preventivo nulla osta dell’autorità militare austriaca anche per quella che, forse, l’Inquisizione romana rubricava come mera operazione di polizia religiosa. Certo, riesce difficile capire in quali mani fosse finita la grande tradizione giurisdizionalista austriaca di Giuseppe Il e Leopoldo Il d’Asburgo; mentre non è 4ato sapere se l’imperatore Francesco Giuseppe fosse stato tempestivamente informato del grave oltraggio inferto alla comunità israelita, generalmente rispettata e protetta nelle altre città del suo impero. Dal Diario Massari siamo informati di un passo ufficiale del conte Colloredo, ambasciatore austriaco a Roma, che non ottenne alcun risultato.
Forse questo spiega anche la fretta estrema con cui, nel breve volgere di poche ore, Edgardo Montata scortato dai gendarmi venne spedito di gran carriera a Roma, per essere rinchiuso nella Casa dei Catecumeni. Ma anche nella capitale il transito dei passeggeri non era privo d’inconvenienti. Per entrare in città da una qualunque delle porte d’accesso, occorreva presentarsi ai posti di blocco francesi per far vistare i passaporti; lì l’ufficiale di picchetto, anche in assenza di segnalazioni precise, avrebbe dovuto rilevare la stranezza di un bimbo in viaggio da Bologna a Roma, privo della compagnia di parenti adulti, affidato alle cure di un brigadiere della gendarmeria pontificia.
Il rapimento non passò sotto silenzio nell’Europa del 1858. Si mobilitarono rapidamente stampa e diplomazia; lo stesso Napoleone III ne fu profondamente turbato, tanto da incoraggiare energiche proteste presso il cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, dando infine via libera all’estro teatrale del proprio segretario Mocquard. In quel dramma "la storia del piccolo Mortara, [era] dipinta con colori vivissimi", delineando "gli affetti di madre e le passioni religiose in tutta la loro potenza di natura e di fanatismo", alfine "d’influenzare le masse, distruggendo così ogni influenza delle polemiche clericali".
Per un momento sembrò addirittura che l’ambasciatore francese a Roma potesse farsi carico di un contro-rapimento che avrebbe restituito il piccolo Edgardo ai suoi genitori. Piano audace, ma non certo temerario, solo che si pensi che all’epoca Roma era sotto occupazione militare francese e che nel porto di Civitavecchia erano sempre alla fonda navi da guerra imperiali. L’improvvisa irruzione di un plotone francese nella Casa dei Catecumeni avrebbe liberato Edgardo senza neppure provocare una crisi internazionale, ma solo una protesta formale del cardinale Antonelli. Ma non se ne fece nulla e vien da pensare che sull’inazione francese, che contraddiceva le iniziative teatrali del segretario Mocquard, possa aver inciso il modesto peso sociale della famiglia Mortara.
Nella stessa Torino, dove, pure, il caso aveva suscitato scalpore, dal Diario Massari traspare implicitamente che se ne volesse fare una gestione politica ad uso interno. Luigi Carlo Farmi nella sua lettera aperta a lord John Russell, La quistione italiana, si era richiamato al "caso del Montana" per delegittimare lo Stato Pontificio, scrivendo che il Sant’uffizio "ha per santo il ratto dei bambini e non vi è forza di Potenze che basti a restituirli ai genitori". Lo stesso Cavour, quando venne informato dell’intenzione francese di rapire il bambino, definì una "idiozia" l’idea di "voler far terminare l’affare Montara". Mentre Michelangelo Castelli pregustava l’idea di vedere rappresentata a Torino La tireuse de cartes di Mocquard "per far andare in cimbalis il giornale l’Armonia", cioè per infastidire l’organo dei clericali piemontesi di don
Giacomo Margotti.
Pian piano, sulla disperazione della famiglia Mortara di Bologna che aveva avuto il solo torto di professare una religione sgradita al papa, scese un silenzio interrotto di tanto in tanto da un inutile intervento dei banchieri Rotschild o da articoli su una stampa sempre più disattenta.
E veniamo all’epilogo della faccenda: l’arresto del colpevole.
Quando si vide di fronte l’ispettore Filippo Curletti, capo della polizia politica delle Province regie dell’Emilia, padre Pier Gaetano Feletti si rese conto che per lui non c’erano più molti margini di manovra. Il 31 dicembre 1859, a Bologna padre Feletti veniva ammanettato dalla forza pubblica penetrata nel convento di San Domenico. Scortato nella prigione del Torrone sovrastante Palazzo d’Accursio, sede del governo cittadino, il sacerdote sapeva di non poter più contare sulla paterna protezione del cessato governo pontificio. Quell’arresto per padre Feletti non giungeva inaspettato; è addirittura probabile che si fosse meravigliato per aver goduto di una certa tranquillità nei mesi successivi alla fuga del cardinale Legato Giuseppe Milesi Pironi Ferretti quando, il 12 giugno 1859, quella partenza precipitosa aveva annunciato la fine di un’epoca.
Per molti aspetti, l’arresto di padre Feletti poteva rappresentare l’introduzione nelle cessate province pontificie di canoni di legalità europea, l’irruzione a Bologna di una modernità statale sotto forma giudiziaria, basata sul principio che tutti gli individui potevano essere sottoposti a regolare processo penale, prescindendo da qualunque privilegio di ceto. Proprio perché padre Feletti non era un sacerdote qualunque, il suo arresto era destinato a mettere rumore in città, destando contemporaneamente l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica europea.
Rinviato a giudizio il 7 marzo 1860, qualche giorno prima del plebiscito, per "separazione violenta del fanciullo Edgardo Mortara dalla propria famiglia israelitica per motivo di dedotto battesimo"", fu assolto dopo una breve camera di consiglio per aver obbedito a ordini superiori, dato che "l’ablazione fu fatto di Principe". Commentando la sentenza, il bolognese Enrico Bottrigari rilevò che "avuto riguardo alle leggi che vigevano antecedentemente, sarebbe stato migliore avviso di non inquirere contro questo Signor Inquisitore, che, al dire di molti, se non fu autore, fu almeno complice efficacissimo di quel misfatto".
Resta da aggiungere che una severa condanna detentiva di padre Feletti, comunque motivata, avrebbe potuto servire per proporre a Roma uno scambio del recluso domenicano con il bambino Montana. Ma, quasi certamente, la Santa sede avrebbe opposto un diniego, formalmente ineccepibile, ancorato a precise disposizioni canoniche. Anche se non era mai stato dimostrato che Edgardo fosse stato effettivamente battezzato da un adulto perfettamente consapevole della portata di quel sacramento. Senza contare che papa Pio IX, nel frattempo, si era anche affezionato a quel bambino a cui, con modalità improntate ad arbitrio pre-moderno, aveva distrutto la famiglia.
La sentenza di assoluzione fu emessa il 16 aprile 1860 e l’imputato Feletti beneficiò del divieto di retroattività delle disposizioni incriminatrici, uno dei cardini del pensiero giuridico moderno. Era stato quindi processato in base al Regolamento pontificio sui delitti e sulle pene del 1832 che non prevedeva sanzioni per il sequestro di persona e per il sovvertimento dell’ordine delle famiglie. (Tratto da Martucci Roberto "L’invenzione dell’Italia unita", Sansoni, pag. 130)
Ecco invece il rapimento di bambini in Nuova Guinea.
"Il capo e sua moglie erano molto orgogliosi di Oblankep. Spesso sedevamo insieme a parlare. Un giorno il capo annunciò, con mia grande sorpresa, che mi avrebbe raccontato la storia di come aveva trovato suo figlio.
I fatti si erano svolti, secondo quanto raccontava, alla fine degli anni Cinquanta o all’inizio dei Sessanta, l’anno dell’ultima grande scorreria nella regione di Yominbip. Gli abitanti della regione avevano programmato la spedizione da lungo tempo. Segretamente avevano costruito un ponte sospeso di canne sul fiume Sepik. Un gran numero di guerrieri attraversò il ponte di notte e circondò un villaggio di atbalmin.
A un segnale convenuto, i guerrieri scesero e massacrarono tutti i cinquanta abitanti del luogo risparmiando solo alcune ragazze e i bambini. Il gruppo di scorridori fu impegnato nello smembramento e nella composizione di adeguati pacchi per il trasporto dei cadaveri sino al giorno dopo. Il capo, che all’epoca era giovane, si era portato il torso scuoiato di un uomo sulla schiena, oltre a braccia e gambe legate insieme su ogni spalla e una testa avvolta in un involucro di foglie di palma appeso al fianco.
Una volta giunto ai sobborghi del villaggio fu colpito da un suono debole ma persistente: era un bambino che piangeva, un bimbo di meno di un anno, appeso a un albero sul sentiero in un biium, una borsa di rete. Sua madre doveva essere corsa fuori dalla capanna non appena aveva udito il fragore degli scorridori e, nel disperato tentativo di salvare il suo piccolo, lo aveva nascosto là prima di essere uccisa; il capo prese la borsa di tela e se la passò sulla spalla. Dopo alcuni passi il piccolo, confortato dal calore e dal ritmo dei passi del padre adottivo, si tranquillizzò e si addormentò. Non sapeva di essere trasportato tra le membra sezionate dei suoi veri genitori.
Mentre mi narrava questa straordinaria storia, il vecchio prese la mano di Oblankep tra le sue con un gesto di grande tenerezza. Al termine con voce tranquilla aggiunse in Pidgin: " Compresi in quel momento che mio figlio sarebbe stato un uomo buono. Non pianse, ma rimase calmo e tranquillo per tutta la strada".
Oblankep guardava in viso suo padre, sorridendo. Io ero ancora turbato e confuso da questo racconto di amore familiare quando ci raggiunse la moglie del capo.
"Mangiammo i suoi genitori atbalmin. Erano grassi. Mi concessero tutto il latte di cui avevo bisogno per nutrire due bambini; Oblankep crebbe forte grazie a loro. "
Vicende come quella di Oblankep erano perfettamente accettabili a Yominbip. In verità erano la norma, e narrare la storia delle origini di una persona in questo modo pareva rinforzare il segno di appartenenza alla società yominbip di ogni componente della tribù.
Dall’inizio degli anni Settanta gli abitanti di Yominbip avevano affrontato tempi duri. L’amministrazione australiana riuscì efficacemente a impedire la pratica delle scorrerie, proteggendo le comunità circostanti. A causa della spaventosa mortalità infantile c’erano relativamente pochi bambini a Yominbip e il villaggio stava rapidamente spopolandosi." (Tratto da Tim Flannery, "L’ultima tribù", Corbaccio, p. 143)
http://www.ilpalo.com/storia/inviate-a-mailing-list-nuova-storia/edgardo-bambino-rapito-papa-pio-ix.htm
sabato 17 maggio 2008
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